Blitz della Polizia, perquisita la casa dello Chef più famoso d’Italia | Non può più usare il cellulare né parlare in pubblico

Chef (Depositphotos foto) - www.insolenzadir2d2.it
Parole al vetriolo, dispositivi sequestrati e silenzio imposto: scoppia il caso attorno allo chef più discusso d’Italia.
Negli ultimi giorni, sui social, si è riacceso un dibattito che ciclicamente torna: fino a che punto si può parlare liberamente senza rischiare guai seri? È una domanda che non ha mai una risposta semplice, soprattutto quando a parlare sono personaggi pubblici della televisione, conosciuti da tutti, con migliaia di follower e un tono che spesso non fa sconti.
In certi casi, basta una frase scritta nel momento sbagliato perché tutto cambi da un giorno all’altro. I social sono diventati arene pubbliche dove ogni uscita può diventare un’arma a doppio taglio. Non c’è più differenza tra un’opinione buttata lì e una dichiarazione ufficiale. E il problema è che, quando c’è di mezzo la cronaca internazionale e temi ultra sensibili, il rischio di finire sotto i riflettori aumenta esponenzialmente.
Alcune vicende, poi, accendono i riflettori proprio perché coinvolgono figure molto note, come i grandi chef della tv. Ecco, in questi casi, la polemica si allarga e coinvolge tutti: magistrati, giornalisti, attivisti, utenti comuni. Il punto non è solo cosa è stato detto, ma anche cosa può provocare quel messaggio.
C’è poi un aspetto ancora più delicato: quando le parole si incrociano con episodi reali di violenza, sangue e tensioni politiche. E se ci si trova in mezzo a quella linea, il passo verso un’indagine vera può essere più corto del previsto.
Due post che hanno fatto esplodere tutto
Nel primo post, scritto prima dell’attacco, lo chef parlava di “morte ai diplomatici complici del genocidio”, “morte al sionismo” e sostegno alla Palestina. Un linguaggio duro, anzi durissimo, che ha attirato l’attenzione degli inquirenti. Il giorno dopo, ha rincarato la dose condividendo le foto delle vittime e facendo un paragone tra un impiegato dell’ambasciata e un soldato. Una posizione che ha scatenato fortissime reazioni, dentro e fuori dalla rete.
Come riporta anche Leggo, a raccontare per primo quello che stava succedendo è stato Alberto Fazolo, attivista ed ex combattente nel Donbass, che ha pubblicato sui social parte dei documenti legati all’indagine. Secondo lui, lo chef ora non ha più accesso ai suoi account né ai contenuti archiviati. Gli investigatori starebbero cercando di ricostruire cosa c’era nelle sue comunicazioni private, su Telegram e Signal, per capire se ci siano altri elementi utili all’inchiesta.

Una visita inaspettata e la casa passata al setaccio
Tutto è partito da due post pubblicati da Gabriele Rubini – sì, proprio lui, Chef Rubio – che sono finiti nel mirino della Digos, come riporta anche Leggo. Poche ore dopo l’attacco all’ambasciata israeliana di Washington, gli agenti dell’antiterrorismo hanno perquisito la sua abitazione su ordine della procura. Rubini si è ritrovato senza computer, telefoni, chiavette e pure le memorie di backup. Tutto sequestrato. E subito dopo è stato portato al commissariato di Frascati per essere sentito.
I post risalgono al 21 e 22 maggio e sono stati pubblicati su X (l’ex Twitter). In quelle stesse ore, davanti al Capitol Jewish Museum, hanno perso la vita due funzionari israeliani, Yaron Lischinsky e Sarah Milgrim, uccisi da Elias Rodriguez. Le parole usate nei messaggi di Rubini sono state ritenute particolarmente gravi: la procura sta indagando per istigazione all’odio razziale e religioso, aggravata dalla finalità di discriminazione, secondo l’articolo 604 bis del codice penale.